Made in Italy, monito a garanzia del consumatore agroalimentare e non solo, nella spesa di tutti i giorni.
Oggi parleremo di “Made in Italy”. Termini ricorrenti nelle pubblicità degli ultimi giorni.
Non si tratta, tuttavia, della serie televisiva, tra l’altro molto apprezzata dagli utenti, dedicata alla nascita della moda pret-a-porter italiana, trasmessa su Prime Video e a breve in onda su Mediaset.
“Made in Italy” è un’espressione utilizzata a partire dagli anni ’80, coniata allo scopo di contrastare la falsificazione artigianale ed industriale italiana, soprattutto nei quattro settori chiave, noti come le 4 A. Stiamo parlando del settore agroalimentare, di quello automobilistico, dell’abbigliamento e dell’arredamento.
Da sempre, i nostri prodotti sono simbolo di qualità, stile, pregio, affidabilità ed eccellenza. Tanto che, secondo uno studio pubblicato da Forbes il “made in Italy” si trova al settimo posto, nella scala reputazionale del consumatore mondiale.
L’importanza del “made in Italy” emerge dai dati delle esportazioni. Si pensi che, il 2018 è stato l’anno record per il made in Italy, all’estero, raggiungendo il valore di 41,8 miliardi di euro.
In particolare, è aumentato sempre di più, negli ultimi anni l’export agroalimentare italiano, riguardante prodotti come vino, agrumi, latte, formaggi, carne e salumi.
Sono paesi importatori dei nostri prodotti la Germania, la Francia, gli Usa, la Russia e Paesi asiatici.
Il “made in Italy” è un marchio di origine, che può essere apposto sul prodotto, sia nei casi in cui sia realizzato interamente in Italia, sia quando sia realizzato in parte in Italia ed in parte, in altri Stati. Infatti sia il precedente art. 24 del codice doganale europeo (Reg. EEC 2913/1992) ma anche l’attuale art. 36 del codice doganale comunitario (reg. ce n. 450/08) considerano originario di un paese, il prodotto in cui quest’ultimo, ha subito l’ultima trasformazione sostanziale.
Pertanto possono fregiarsi del marchio, non solo le merci realizzate interamente in Italia, ma anche quelle prodotte o realizzate parzialmente in Italia, sempreché la lavorazione effettuata nel nostro Paese non abbia carattere marginale.
Sempre più spesso le aziende sono spinte a delocalizzare le loro produzioni, per ridurre i costi produttivi, affidandosi a manodopera priva di specializzazione e a basso costo.
Ciò non danneggia solo il consumatore, che risulta così destinatario di un prodotto di qualità peggiore, ma anche le altre aziende, ovvero quelle che coltivano e credono ancora, nel “made in Italy”. Infatti la delocalizzazione consente di proporsi sul mercato con prezzi più competitivi rispetto a quelli che sarebbero stati praticati, ove la produzione fosse avvenuta interamente nel territorio italiano.
A ciò si aggiunge una tendenza alla contraffazione dei prodotti “made in Italy” proprio per godere della fama mondiale ad essi riconosciuta.
La contraffazione ha interessato anche il settore alimentare. Stiamo parlando di un giro di affari di circa 60 miliardi di euro.
In un nostro precedente articolo, vi abbiamo già parlato dell’agropirateria e dell’italian sounding che consiste nell’utilizzo di parole, immagini e località che richiamano l’Italia ma che, di fatto, non hanno nulla a che fare con la stessa.
Non è solo l’italian sounding, o la delocalizzazzione ad aver minacciato il “made in Italy” ma anche le misure attuate nei mercati di sbocco quali le misure di Donald Trump, l’embargo in Russia che ha colpito molti prodotti come: frutta, verdure, formaggi carne e salumi.
A ciò si aggiunge la disattenzione dei consumatori italiani sempre alla ricerca del prezzo più basso a qualunque condizione.
Fortunatamente da quando è diventata obbligatoria l’indicazione in etichetta dell’origine degli alimenti, una parte dei consumatori ha mostrato una maggiore attenzione nella lettura delle stesse. Certamente nell’attuale periodo di pandemia, è aumentato l’interesse per i prodotti a km 0 ma ciò non è sufficiente.
Il “made in Italy”, infatti non deve essere promosso solo all’estero ma anche in Italia.
Luigi Scordamaglia, presidente della filiera Italia, in modo eloquente ha spiegato che “scegliendo italiano si fa il bene del Paese, si favoriscono i contratti di filiera tra produttori e trasformatori, l’aumento dell’efficienza produttiva e si garantiscono entrambe le parti da drammatiche oscillazioni di prezzo”.
Non si può pensare che le nostre eccellenze debbano andare all’estero e che agli italiani siano rifilati prodotti scadenti e di importazione.
E’ sufficiente oggi, recarsi in qualsiasi supermercato e notare come spesso, si pensi ai prodotti lattiero caseari, leggendo le etichette sia difficile rinvenire l’indicazione “latte italiano sia per la mungitura che per la trasformazione.
Ma non è questa la cosa più scioccante. Il latte italiano non si trova assolutamente nei marchi prestigiosi, ma in quelli meno conosciuti od emergenti.
A questo punto basta chiedersi cosa spinga un produttore italiano ad approvvigionarsi di latte in un altro Stato. E la risposta sarà più che ovvia. Un prezzo più basso! Prezzo, che a quanto pare rimane basso, nonostante ci sia l’incidenza del trasporto. A ciò possiamo aggiungere meno controlli, dovuti a normative meno restrittive e qualità scadente.
Si tratta, comunque, di scelte che riguardano tutte le materie prime di moltissimi prodotti.
Di fronte a tali preferenze, spetta ai consumatori ribellarsi non acquistando tali prodotti!
Infatti è necessario che il consumatore, dopo una lettura accurata delle etichette, diriga le sue scelte verso prodotti di qualità e che siano, davvero, made in Italy.
Altrimenti nulla cambierà e di fatto le nostre eccellenze saranno destinate all’export, disposto invece, a pagarne il prezzo.